cooperativa La Bitta
Verbano Cusio Ossola - Piemonte

Solidarieta
Settore
Servizi
sociale,assistenza
1993
Nasce nel
Yes, we care!

Sapere prendersi cura, una expertise che ha fatto la fortuna di questa bella realtà

La Cooperativa la Bitta è nata nel 1993 per gestire una piccola RSA per anziani. Negli anni si è molto ingrandita nella gestione di servizi su appalto pubblico, fino ad arrivare a 150 lavoratori per poi ridimensionarsi in relazione alla quasi completa uscita dal sistema degli appalti e la prevalenza di servizi privati anche accreditati. La territorialità è stata sempre considerata un elemento di forza, sono radicati nella provincia del Verbano Cusio Ossola, in particolare in Ossola con i servizi, ma cercano la condivisione, il confronto, la rappresentanza a livello regionale, nazionale ed europeo attraverso la partecipazione a reti, gruppi, federazioni. Si occupano di servizi alla persona dall’infanzia alla vecchiaia con assistenza, consulenza e riabilitazione. Collaborano con il volontariato che le comunità locali esprimono. La loro storia è affidata alla penna di una loro socia, Silvia Negroni A cura di Silvia Negroni
Scegliere di lavorare nel sociale implica la scelta, più o meno conscia (auspicabilmente conscia!), di lasciare entrare nell’ambito professionale un aspetto che in genere e per senso comune si riconduce prettamente alla sfera privata, familiare: il prendersi cura. Il termine inglese care racchiude e rispecchia l’attitudine e il mandato richiesto a un operatore del sociale: una piccola parola di sole quattro lettere contiene infatti diverse sfumature e significati, tutti attinenti a questo particolare modo di pensare e affrontare il proprio lavoro, e riporta facilmente a una sfera di comportamenti, attenzioni, modi di agire che non ha un parallelo diretto nella lingua italiana. Care, come forma verbale o come sostantivo, significa interessare, essere solidale, interessarsi a quacuno o qualcosa, avere a cuore, prendersi cura, ma anche preoccupazione, responsabilità, attenzione e custodia.
In quattro lettere, un buon pezzo di mandato professionale insomma. Certamente, a seconda dell’utenza con cui si lavora e del ruolo che si ricopre, questo genere di impegno varia di intensità e rilevanza. Può risultare secondario, addirittura latente, ma di fatto è insito nella scelta stessa di orientare la propria vita professionale in un campo, piuttosto che altrove. Questione di indole, insomma, si direbbe. Sì, anche. Al principio. Che poi va alimentata, declinata e delimitata dalla formazione e dall’esperienza. Dopo anni di lavoro nel sociale in diversi ruoli e con svariate utenze, durante i quali il particolare aspetto del ‘prendersi cura’ ha avuto rilevanza e fortune alterne, lavoro da quasi due anni con la Cooperativa La Bitta nel servizio di accoglienza per richiedenti asilo.
Giovani e giovanissime donne e bambini soprattutto dalla Nigeria, approdati per pura casualità a Domodossola, dopo mesi di dolorose peregrinazioni attraverso il deserto, la Libia, i barconi, gli scafisti. Al netto delle individuali esperienze di vita prima del percorso migratorio, assumiamo che questa particolare utenza richieda una particolare attenzione all’avere cura. Anche senza testimonianze dirette e raccontate, dobbiamo dare per scontato di avere a che fare con persone, giovani e dalle identità sconquassate, che hanno subìto ogni sorta di violenza, che per approdare a Domodossola hanno pagato un conto presumibilmente piuttosto alto in termini di sofferenze e traumi. E già il cerchio del prendersi cura si stringe, si fa quotidiano, si fa matrice entro la quale agire e lavorare. Poi ci sono i bambini. Per definizione, più bisognosi di cure.
Questi bambini sono figli di quelle giovanissime madri spesso allo sbaraglio, che si trovano a vivere la maternità in un contesto a loro totalmente alieno. Madri che non hanno le donne più anziane, le loro donne più anziane, a far da guida, non hanno la comunità. Non hanno alcuna esperienza per crescere dei bimbi a Domodossola, Piemonte, Italia. Che a Benin City o a Lagos sarebbero state probabilmente mamme adeguate, sostenute, indirizzate, ma che qui non capiscono il mondo in cui vivono e i nostri tentativi di aiutarle nell’essere madri a Domodossola. Giovani madri che hanno le lezioni di italiano da seguire, il lavoro, se c’è, da mantenere, ma non hanno alcuna rete di supporto per i bambini.
Io e i miei colleghi sappiamo di essere degli adulti di riferimento per loro, pur nella differenza data dalle diverse età; sappiamo e sentiamo il forte legame affettivo che ci lega, sappiamo di essere importanti nelle loro vite, in questo momento. Sappiamo anche che è, appunto, un momento, una fase, e che il nostro lavoro avrà successo se a un certo punto non ci sarà più bisogno delle nostre cure e attenzioni. Ogni storia è diversa. In alcuni casi questo momento lo si intravede già, in altri sappiamo che dovremo esserci ancora per un po’, forse molto, dovremo mantenere ancora a lungo quel legame affettivo forte che ci lega coi più piccoli, alcuni dei quali abbiamo visto nascere, e seguiamo e curiamo da allora.
Sappiamo che il coinvolgimento emotivo si farà sempre più grande, che ci darà molto, che sarà per noi il lavoro quotidiano e che ce lo porteremo anche a casa, così come sappiamo che a un certo punto dovremo farci da parte, sempre più, fino a non essere più parte delle loro giornate. Sappiamo che sarà difficile, ma che avremo gli strumenti per farlo; e sappiamo che sarà difficile per noi, ma dovrà essere naturale per i bimbi. In questo senso, il prendersi cura non può essere solo indole, ma dev’essere supportato da strumenti professionali che permettono di farsi coinvolgere e di tenere al contempo una certa distanza relativa. È un lavoro fra i più difficili al mondo, ma è anche fra i più belli, secondo me.